Paesi in via di sviluppo, Come uscire dalla trappola della povertà?
Autore: Pierre Varasi
Gennaio 2015
2,5 miliardi di persone nel mondo vivono sotto la soglia di povertà, pari a 2$ al giorno. 1,3 miliardi vivono sotto la soglia di povertà estrema, cioè con meno di 1,25$ al giorno. L’Africa sud-sahariana rappresenta da sola il 46,8% di questi (dati del 2011). Subito dopo si trova il Sud Asia, con il 24,5%.
Interrogarsi sulle origini e sulle cause di questo fenomeno è ovviamente importante, ma queste non sono semplici da trovare: alcuni studiosi danno la colpa al loro ‘naturale sottosviluppo culturale’, altri alle colonizzazione europee, altri ancora alle condizioni climatiche e del territorio, in ogni caso teorie poco conciliabili. Per quanto si potrebbero trarre argomenti a favore di ognuna di queste, penso sia più importante capire cosa si possa fare e non solamente guardarsi indietro.
Gli stati sviluppati provano da anni ormai ad aiutare questi paesi.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, si è avuta una grande accelerazione nella nascita di istituzioni, movimenti e associazioni per lo sviluppo. Ma a distanza di quasi 70 anni gli aiuti si sono rivelati quasi inefficaci. Ciò che hanno sbagliato non è la quantità o la forma degli aiuti, quanto la modalità con cui sono stati consegnati, e quello che questi aiuti hanno comportato. In particolare, in moltissimi di questi stati non vengono rispettate tradizioni e cultura locale, ma semplicemente importati strumenti e anche costumi occidentali, senza tener presente delle unicità di ognuno dei paesi riceventi.
Ancora più importante è considerare che all’aiuto si è quasi sempre legato un qualche tipo di interesse: economico, condizionato a specifiche politiche e programmi, o anche all’acquisto di prodotti dal paese portatore di aiuti. Simili critiche possono essere fatte alle istituzioni di Bretton Woods: la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio. I paesi in via di sviluppo sottolineano come queste siano controllate ed influenzate dalle potenze mondiali, che impongono un’unica visione economica, quella neo-liberale; che minano la sovranità statale con le loro imposizioni; che concedono capitali, senza però assumersi la responsabilità dei lavoratori e dei migranti che qualsiasi trasformazione economica comporta. Infine, che applicano gli stessi strumenti ovunque e allo stesso modo.
Tutto questo non toglie però che degli aiuti siano necessari. In un paese povero la maggior parte degli introiti viene speso nel consumo, e questo riduce i risparmi. Ne seguono anche minor investimenti, fondi per innovazioni tecnologiche e non solo, cosa che porta ad una bassa produzione ed una crescita lenta. Questa è la trappola della povertà, definita così perché di rimando la bassa produzione porterà nuovamente a consumi limitati ma che costituiranno la maggior parte degli introiti. Ciò che a questo punto può cambiare le cose è solo un investimento esterno, che, quando ben sfruttato, può portare allo sviluppo di settori strategici e del turismo. Da questo principio deriva l’importanza del commercio, che dagli anni ’50 è costantemente aumentato, portando novità e cambiamenti in tutto il mondo.
Non mancano poi i difensori delle istituzioni sopra citate: gli stati non sono costretti ad accettare i crediti loro proposti, ma soprattutto, è davvero giusto lasciare che questi vengano usati liberamente da nazioni spesso corrotte e piene di problemi anche a livello politico e giuridico? Inoltre, con il tempo sono nati diversi movimenti che vorrebbero la cancellazione dei debiti per i paesi del terzo mondo, a dimostrazione del fatto che molti si sono ormai accorti degli errori commessi in passato e che questo debito vada a soffocare maggiormente le loro economie.
Come far uscire quindi questi paesi dalla trappola della povertà? Utilizzando sia prestiti da parte di stati e istituzioni, e gestendoli in modo controllato ma non necessariamente legato a clausole predefinite; ma soprattutto tramite l’investimento privato. Sigrid Kaag, assistente amministratore del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), sostiene che senza investimento privato non ci sarà alcuna crescita significativa. Il settore privato porterebbe infatti conoscenze avanzate, innovazioni, modelli di commercio e produzione testati. Soltanto condividendo queste conoscenze sarà possibile un vero sviluppo nel Terzo Mondo.
La verità è che per quanto ci si possa sforzare, mandare soldi non basta per migliorare le condizioni di vita dei paesi in via di sviluppo. Lo stesso presidente della Banca Mondiale Jim Yong Kim ammette che i fondi pubblici non siano sufficienti, mentre un ruolo maggiore dato ai privati porterebbe alla creazione di nuovi posti di lavoro. Non sarebbero solo posti di lavoro ad essere creati, ma crescerebbero i salari. Questo porterebbe di conseguenza ad un miglioramento nelle condizioni di salute e vita, nei livelli di istruzione e nella creazione di infrastrutture. Le nuove aziende, trasferitesi da poco, genererebbero poi un nuovo introito per il governo, sotto forma di tasse; sarebbero competitive per il mercato e per questo emulate da quelle già presenti sul territorio, portando ad una maggiore produttività.
A lungo termine, tutto ciò renderebbe migliore la qualità dei prodotti, allo stesso tempo rendendoli più economici. Le fasce più povere della popolazione sono già un nuovo mercato per molte aziende statunitensi in India e Brasile, per esempio. Inoltre, non solo l’investimento privato deve concentrarsi in queste aree per tentare di aiutarle, ma anche per crescere: dalla crisi economica del 2008 la crescita del terzo mondo è stata un motore per le nostre economie.
FONTI:
- Worldbank.org
- UNDP.org
- IFC.org
- Baker, “Shaping the Developing World”
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